La magia del calcio non finisce mai di stupire. Per caso, ed è questo il vero ingrediente dell’arcano e dello stucchevole mistero, pernottiamo in una pensione a Chioggia, inebriati dal gradevole odore della salsedine, dallo stridore dei gabbiani nei canali, dall’allegro brulicare di voci cantilenanti dei laboriosi pescatori. Tutto qui, in questa lingua di terra strappata al mare Adriatico, al Delta del Po e all’Adige, finisce inesorabilmente per rapirti: dall’incanto dell’isola arsa dal sole, levigata dal vento, al gossipistico chiacchiericcio delle comari e a quello più spensierato delle giovani coppie di turisti, che si perdono lungo le calli, temendosi per mano.
Il fisico è quello dell’atleta: ancora intatto, nonostante le prossime – il 18 di ottobre – 75 primavere. La curiosità ci muove a chiedere se quel tal signore abbronzato, come le famose statue riemerse dal mare a Riace, e dagli occhi tra l’azzurro e il verde del mare della laguna, è stato uno sportivo: “Sì, ho giocato a calcio, nei professionisti, per oltre una dozzina di anni. Venezia, Mantova, Sampdoria, Catania, Taranto e Varese, sono state le mie tappe”.
Ecco, Ubaldo Spanio, classe 1943, garbato nei modi più di quando prendeva in consegna i bomber più caustici avversari, ha rischiato di diventare uno di quei pescatori, con la cicca pendula dal labbro della bocca, con la pelle più bollente e scottata di un mozzicone di cicca. “Ho perduto papà Fulvio quando avevo solo un anno e mezzo: non l’ho mai conosciuto perché, lui, padre di sette figli, era dedito alla pesca tutto il giorno, e improvvisamente saltò in aria sul barcone a causa di una delle mine con i quali i soldati tedeschi, durante la loro ritirata nel 1945, avevano imbottito i ponti. Con mio padre, hanno perduto la vita anche mio fratello Osvaldo e i miei zii, oltre ad altri pescatori che facevano solamente il loro lavoro. Io, ero il più piccolo della famiglia, tirata su con estrema fatica da mamma Dalia. Che pensò per me la soluzione del collegio, una dura palestra di vita marinara, che mi forgiò nel carattere, e che al termine della quale sarei uscito con la specializzazione di carpentiere di bordo, di elettricista, oppure con quella di marconista o di motorista meccanico navale”.
Il pallone preso a calci con rabbia, lacrime e dolore del figlio orfano dentro quel cortile, dal quale si evadeva soltanto con il sogno di poter sfondare un bel giorno nel calcio che conta: “Un pomeriggio, durante un torneo, fui visto dai dirigenti del Venezia degli allora giocatori Bertagna (Roma) e Facchìn (Torino). Provai con successo per i ragazzi del club della erenissima ed entrai a far parte, giovanissimo, del gruppo guidato dai vari Pochissimo, Neri (libero), Bubacco (portiere), Tesconi. Furono loro a tenermi da battesimo alla 30esima giornata di serie B”.
Quella domenica al “Pierluigi Penzo”, in tribuna anche il bergamasco mister – poi, anche del Verona – Giancarlo Cadè, in compagnia di Gustavo Giagnoni, vecchia gloria virgiliana: “A dire il vero, erano venuti per vedere all’opera Santòn, il prezzo pregiato della difesa veneziana. Che fu preso, ma, sopra il conto vollero anche il sottoscritto in cambio di due giocatori bianco-rossi lombardi. E da quel giorno si inaugurò la mia avventura al Mantova”.
E, con il Mantova del giovane Spanio – che ebbe marcare Sandro Mazzola, prima punta, assieme a Jair, il brasiliano con la flanella bianca che teneva lunga oltre la maglia – si guadagnò subito la massima serie: “In quell’anno totalizzai 38 gare, alla pari di Dino Zoff (due anni dopo al Napoli), di Salvemini, Spelta, Johansson, Tomeazzi. In quel Mantova anche Gegè Di Giacomo da Porto Recanati, sì, quello che da ex, nel maggio del 1967, al “Danilo Martelli”, scucì dalla casacca il tricolore alla grande Internazionale di Helenio Herrera. Il suo tiro innocuo incrociò la clamorosa papera di Giuliano Sarti e il mattatore a fine gara fu aggredito dalla rabbia di Luisito Suarez, di Aristide Guarnieri e degli alfieri nerazzurri. Il tricolore passò ad arricchire la bacheca già ricca della Juventus, a cui approdò l’anno successivo Sarti, creando, a mio avviso, ingiustificati quanto comprensibili sospetti sulla gara accomodata”.
Zoff all’ombra del Vesuvio, il chiozzotto Spanio, invece, alla Sampdoria di mister Fulvio “Fuffo” Bernardini, colui che si diceva allora facesse giocare al suo grande Bologna – ma, anche alla Fiorentina – un calcio così bello che non si vedeva neanche in Paradiso: “Giocai con Frustalupi, con Romeo Benetti, poi, l’anno successivo con Lodetti e Suarez, rispettivamente ex Milan ed ex Inter. Suarez? Un centrocampista bravo come lui non lo ho mai incontrato nella mia carriera: personalità, capacità di far gol, lancio millimetrico, grande play-maker, più forte di Veron!). Io stopper, Marcello Lippi libero: lo tenni io a battesimo il futuro cittì dei Mondiali vinti in Germania nel 2006. Era la stagione 1969-70, sì, proprio quella in cui trionfò il Cagliari di Gigi Riva, altro immenso giocatore, potente nelle conclusioni, difficile da marcare in gara. Uno dei più grandi bomber che ho dovuto prendere in consegna”.
Tanti i “clienti difficili”, i “punteros” più velenosi, caustici di Ubaldo Spanio: “Ricordo i duelli con Giorgione Chinaglia, dal fisicone da corrazziere, con Roberto Pruzzo (Genoa e Roma), con Beppe Salvoldi (Bologna e Napoli), con Anastasi (Juventus). A Taranto, in Coppa Italia, prima della gara venni a sapere dal mio compagno di scuderia Cazzaniga che sentì durante il percorso che accompagnava l’ingresso in campo dallo spogliatoio il dialogo tra Pulici e “Ciccio” Graziani: ebbene, mi confidò che “Ciccio” disse al suo “gemello del gol granata” che lui non voleva giocare contro Spanio; perché l’avrebbe ammaccato, commentando “Vai tu, Paolino, su Spanio!””.
Autentici duelli rusticani, quelli vissuti per decenni da Spanio: “Con le “torri” del Verona, Gianni Bui e Vincenzo Traspedini, erano davvero al limite della tolleranza. Difficilissimo marcare Bui, fortissimo nello stacco di testa, i cui colpi di appoggio a Traspedini o direttamente scoccati in rete erano micidiali. Lui, delle gambe, avrebbe potuto benissimo farne a meno! Poi, del Verona, mi ricordo la classe, l’eleganza e l’autorevolezza di Emiliano Mascetti. Soffrivo i piccoli, in primis, Pietruzzo Anastasi, specialmente i bravi nei guizzi di testa: come il torinista Toschi. Ma, anche Angelo Benedicto Sormani e Sergio Clerici, “El Gringo” brasiliano: quest’ultimo era un centravanti d’area completo tecnicamente, forte fisicamente, tra i più forti e signori che abbia marcato. Difatti, Clerici ha fatto una bella carriera in Italia”.
Duelli, che si protraevano anche finita la pugna: “Altri clienti caustici, Omar Sivori e Josè Altafini: il brasiliano, una volta, a fine gara, mi è venuto incontro, puntandomi la sfera di cuoio in mano, e con aria irridente, dicendomi “Vuoi la palla, eccola, dai, giocala ora!”. Era la reazione a una mia rigida (come la mia infanzia e il collegio marinaro) marcatura, fatta anche di gomitate”. I più grandi stopper della fine degli anni 60, inizio 70, erano il milanista Rosato, Guarnieri dell’Inter e lo juventino Giorgio Morini: “Con Morini feci la staffetta: lui alla Vecchia Signora, io alla Sampdoria. Mi costò molto conquistare la fiducia dei tifosi doriani, all’indomani della cessione di Morini alla Juve: alla 1^ giornata di campionato, ospite il Cagliari, marcai in maniera sicura Gigi Riva e Fuffo Bernardini non mi tolse più”.
In 362 partite giocate sia in serie A (113 per l’esattezza!) che in serie B, un record negativo (si fa per dire): mai un gol. “Ma, allora, le consegne per un difensore erano rigide, obbligatorie. non potevi passare la metà campo, pena la fucilazione. Carlo Petrini, in un suo libro, mi ha definito come uno degli stopper più rognosi: io ero al Catania, dove a fine gara si proiettava nello spogliatoio il grande Candido Cannavò a svolgere le interviste e a chiarire particolari che gli erano sfuggiti, Petrini al Catanzaro. Ebbene, il romanista si vendicò delle spigolosità ricevute all’andata, facendo quello che si chiama oggi del terrorismo psicologico. E, anche al ritorno furono sgomitate, calci, botte da orbi”.
Di autoreti, la “roccia chiozzotta” ne ha firmate alcune: “Ricordo quella contro il Brescia: il terreno era al limite della praticabilità per le abbondanti piogge cadute al “Penzo” di Venezia, servii innavertitamente palla indietro a Bubacco, la palla rallentò la corsa, fermandosi a metà strada e come un falco De Paoli piombò sopra, calciandola in rete. Ero un ragazzino, e non ti dico quanto piansi dentro lo spogliatoio, perché immaginavo la fine del mio calcio appena iniziato. E, poi, perché non volevo finire a fare il motorista meccanico navale o il carpentiere di bordo, o il pescatore”.
Decisamente un altro calcio, quello di Ubaldo Spanio: “Oggi, solo con alcuni giocatori dei miei tempi, vinceresti lo scudetto e con dieci punti di distacco: all’uno dovresti pagarli venti volte di più di quelli odierni”. Ed ancora: “Erano talmente forti i vari Riva, Rivera, Mazzola, Corso, Suarez, Hamrin, Lodetti, Prati, Claudio Sala, Perani, Haller, Pascutti, Bulgarelli, Nielsen, che non esiste la possibilità di fare un paragone. Oggi si ha più interesse a far venire a giocare i nostri campionati gli stranieri per far cassetta a livello di abbonamenti. Non esistono, poi, più in Italia, forti vivai come quelli del Toro, o quelli che c’erano nel Veneto o in Lombardia. Capello, Zoff, Bearzot, Del Neri provengono da quelle zone dove una volta veramente si pativa la fame; alla maniera del sottoscritto. Oggi, chi ha vera fame proviene dall’Africa, da quel Continente. Chi ha visto tanta fame e tanta miseria, ha una marcia in più per poter cercare di riuscire nel calcio. I nostri 15enni si perdono per strada perché a quell’età hanno già tutto, perché in Italia c’è benessere diffuso. Chi glielo fa fare di impegnarsi, di sacrificarsi sull’altare del calcio?”.